OT: Tempesta in Atlantico

Il racconto di una tempesta in Nord Atlantico fatta dal C.C. Mario Leoni comandante del smg Malaspina, tratto dal libro “SALVATORE TODARO”, di Gianni Bianchi.

«Mentre dirigiamo verso l’Islanda, il barometro comincia, a scendere rapidamente ed in poche ore raggiunge i 725 millimetri di pressione, è evidente che si sta avvicinando un ciclone, al quale non potremo sfuggire per la mancanza di bollettini meteorologici e per la nostra scarsa velocità.
Non dimenticherò mai la tristezza che mi dette quella mattina la vista del sorger del sole. Un cielo plumbeo, quasi ferrigno, striato qua e là da vapori biancastri, un cielo che faceva ricordare quello funereo del famoso quadro di Boecklin l’Isola dei Morti e che era attraversato da un livido solco rossastro che si proiettava sul mare color lava, che ribolliva con un boato sommesso.
Lo spettacolo dava un senso di angoscia, dolorosa perché mi sembrava di trovarmi in presenza piuttosto di un tramonto tempestoso che di un’alba: nell’aria, nel cielo, nel mare si sentiva che qualche cosa stava per scatenarsi. L’orizzonte, quasi invisibile fin dalla sera precedente, andava rapidamente restringendosi intorno a noi e cielo e mare sembravano fondersi in un unico elemento grigio-ferro ed opaco, mentre nuvole oscure si abbassavano fin quasi sul mare. Il segnale della bufera, che doveva scatenarsi di lì a poco, fu dato da una improvvisa e violentissima grandinata: per quasi mezz’ora cielo e mare non ebbero confini, ma sembrarono un solo elemento, mentre pezzi di ghiaccio misti ad acqua gelata, trasportati da un vento impetuoso che proveniva dalla Groenlandia, si abbatterono su di noi togliendoci ogni possibilità di controllo della nave. Non rimaneva che lasciarci trascinare dove mare e vento ci avrebbero portati, perché il sommergibile non obbediva, più al timone. La quasi completa oscurità sopravvenuta ci dava una strana ed indefinibile sensazione di impotenza.
Poi il mare cominciò a gonfiarsi rapidamente, mentre il vento sempre più violento, sollevando lembi di acqua dalla superficie del mare, impediva la visibilità anche a brevissima distanza.
Mi riesce assolutamente impossibile descrivere tutto quello che ho visto e provato in quel momento perché non si trattava più di assistere ad uno spettacolo, per grandioso che esso fosse, ma di vivere la vita stessa di un pauroso fenomeno naturale: soltanto allora sentii veramente la piccolezza e la debolezza dell’uomo davanti alla forza della natura. Avevo navigato quasi tutti i mari della terra e mi ero illuso di conoscere ormai il mare, ma dovetti convincermi che la mia era presunzione e che soltanto allora cominciavo a sapere ciò che significa MARE!
Montagne di acqua che sembravano sollevarsi verso il cielo si susseguivano una all’altra rincorrendosi e scavando fra loro vallate paurose che sembravano abissi. Ogni volta che arrivava una di queste ondate gigantesche, il sommergibile sembrava risalirla faticosamente e, quando giungeva sulla cresta, metteva la prora in basso inclinandosi tanto da dar l’impressione di precipitare in un abisso dove sarebbe stato sepolto dalla montagna d’acqua successiva.
Il rumore era infernale: urli, tonfi, quasi scoppi simili a quelli di gigantesche mine lontane, rimbombavano quando queste masse d’acqua si scontravano fra loro, mentre il vento, gelido e rabbioso, strappava dalle loro sommità delle lame di acqua che si vedevano volteggiare in aria e poi precipitare sul mare, sibilando come frustate.
Il cielo diventava sempre più scuro e gli scrosci di acqua si alternavano a grandinate violente: a mezzogiorno la luce era quella di un crepuscolo invernale. Rimanere allo scoperto sulla torretta, alta pochi metri sul mare, era quasi impossibile e per non essere strappati dalla furia degli elementi, gli uomini di guardia avevano dovuto assicurarsi con corde alla torretta. Per quattro giorni fummo di tratto in tratto quasi sommersi dalle ondate che si abbattevano sulla torretta e ci sentimmo colare entro la schiena un’acqua fredda ed odiosa, per quattro lunghi giorni rimanemmo bagnati da capo a piedi senza nemmeno la possibilità di cambiarci gli indumenti bagnati perché in poche ore avevamo esaurite tutte le scorte di vestiario senza avere la possibilità di far asciugare la roba, che dopo essere stata, strizzata alla meglio veniva di nuovo indossata fradicia e gelata. Durante la notte, poi, la furia degli elementi aumentava ancora, mentre l’oscurità era completa.
Altro che andare in cerca di convogli! Avrebbero potuto transitare tutti i convogli della terra ma credo che da una parte e dall’altra non si sarebbe potuto che guardarci a vicenda.
Ravvicinavo, lo spettacolo a quel che immaginavo fosse stato il globo all’epoca della creazione, quando ogni cosa era coperta dalle acque sconvolte dall’infuriare dei venti e gli elementi primordiali della natura, appena usciti dal caos, lottavano ciclopicamente fra loro.
La vita era impossibile anche nell’interno del sommergibile, dove l’aria trascinata dai motori aveva coperto di un sottile strato di acqua salata viveri e cose: coperte, materassi, vestiti erano inzuppati d’acqua, mentre il continuo sforzo di mantenersi aggrappati a qualche sostegno dava un senso di stanchezza dolorosa. Tentare il riposo era impossibile, perché le rollate avrebbero presto o tardi scaraventato in mezzo al locali l’incauto ospite delle cuccette, e mangiare era cosa altrettanto irrealizzabile per l’impossibilità non soltanto di cucinare qualche cosa ma anche semplicemente di tenere una stoviglia in mano; occhi, stomaco, orecchie erano dolenti fino allo spasimo.
Finalmente il vento cominciò a diminuire di violenza ed anche il mare a rabbonirsi: la vita poteva ricominciare.
Appena possibile determinammo il punto nave e ci trovammo spostati di quasi 120 miglia dal punto in cui dovevamo trovarci!»

Domanda stupida: ma in una simile situazione non avrebbero fatto meglio a rimanere immersi il maggior tempo possibile, magari a bassissima velocità ma abbastanza in profondità da non subire troppo gli effetti della tempesta?

Magari l’hanno fatto, nel pezzo non è specificato, ma tieni presente che se anche si sono immersi, di quei quattro giorni circa due terzi li avrebbero dovuti passare in superficie a caricare le batterie… più che sufficiente direi :wink:

Bel racconto! Grazie Gufo!

Una volta ho conosciuto un sommergibilista classe 1918, la stessa di mio padre, che mi raccontava delle storie analoghe.

Solo che a 18/19 anni, era più l’incoscenza e la voglia di avventura che la paura di morire…
Poi mi disse la sua morale " I giovani non hanno paura di morire perchè pensano che a loro non capiti e poi non hanno niente da perdere perchè non hanno ancora vissuto e assaporato le gioie della vita, come la famiglia e gli affetti!! "