Come ogni anno - ormai è una tradizione - i miei auguri di Natale arrivano insieme ad un breve racconto, che trovate qui di seguito.
I migliori auguri all’EAF, a chi ci segue su queste pagine, ed alle vostre famiglie.
Il Racconto di Natale
E quando arriverai a casa tua ricordati della vecchia Magda
(Una testimonianza di Mario Rigoni Stern tratta dal volume di Giulio Bedeschi Nikolajewka c’ero anch’io – Mursia 1972, pag. 488-490. I fatti si svolgono in Russia, nel gennaio del 1943, durante le ultime fasi della ritirata dell’ARMIR, il corpo di spedizione italiano, composto in gran parte dagli Alpini)
Non ricordo per che motivo, un giorno persi anche io il contatto con il mio scaglione. Forse era a causa della dissenteria che da tempo mi tormentava o per la piaga che avevo al piede, che non voleva rimarginarsi. Quella sera mi ritrovai solo in un lungo villaggio. Nevicava. Camminavo rasente agli steccati degli orti ed il fucile ad armacollo mi teneva stretta al corpo la coperta come uno scialle; mi appoggiavo sul bastone a ogni passo e la neve fresca frusciava sotto le scarpe. Arrivato al centro, dove c’era la solita chiesa con le cupole a cipolla, sento con sorpresa il suono di fisarmoniche e chiasso allegro provenienti da una casa con le finestre illuminate. Mi avvicino per guardare attraverso i vetri della finestra; li dentro molti soldati tedeschi cantano e fanno baldoria con ragazze ucraine.
Resto a guardare indeciso se entrare o no, per chiedere un angolo con un po’ di caldo. Fra la neve che continua a cadere mi trovo vicino un vecchio alto e magro, avvolto in una pelliccia di pecora. “Niet” mi dice “ Non entrare là dentro. Niemsieski”. Dice “niet karasciò” e prendendomi la coperta mi tira verso il centro della piazza, lontano dai riquadri di quelle finestre.
“Vai” mi spiega “verso quella strada, cammina fino in fondo, fino all’ultima isba del villaggio e chiama Magda. Dille che ti manda Piotr Ivanovic.”
Gli dico grazie e lentamente riprendo a camminare. E’ buio, appena si intravedono le ombre delle isbe. Ma dove busso e dico quello che mi ha spiegato il vecchio una porta si apre: come fossi aspettato. La penombra dell’entrata è appena sfumata da un lume ad olio che la vecchia regge alto. Con un cenno mi invita ad entrare, ad andare avanti, e poi dice parole con voce tranquilla e pietosa. Mi aiuta a levarmi il fucile, la coperta incrostata di neve gelata che scuote vigorosamente e stende sopra il forno. Sento il caldo invadermi dolcemente e una gran stanchezza uscire dalle parti più interne del mio corpo per invadere muscoli e membra. Mi siederei qui sul pavimento di terra battuta, con la schiena appoggiata al forno, ad aspettare che la primavera sciolga il gelo del mondo. In questo odore di cavoli, di rape bollite, di farina, di questo vapore umido e caldo, in questo quasi buio dove solo un piccolo stoppino brucia nell’olio di girasole, in questo silenzio profondo che la neve isola qui dentro. Qui sotto. Aspettare un’allodola e un cielo verde e rosa come dalle montagne si vede quando finisce l’inverno.
Sto seduto con la schiena appoggiata al forno e il caldo mi scioglie. La vecchia mi parla come fossi un bambino di pochi mesi. Parlando mi leva le scarpe e mi medica la piaga, poi mi fa alzare prendendomi sotto le ascelle e mi fa stendere su un giaciglio dove sono pelli di pecora, e parla, parla dolcissimamente dicendo cose che non riesco a capire. Dopo apre il forno, leva da lì dentro una pignatta di terracotta e su un piatto di ferro smaltato mi porge quattro patate lesse e una presa di sale : “Cusciai, cusciai” ripete, come a un bambino viziato.
Mangio con gran fame e allora lei ritorna ad aprire il forno e mi porge sul piatto delle pagnottine di farina, morbide, con dentro un ripieno di latte cagliato. “Cusciai, cusciai” mi dice ancora. Poi mi dice di sdraiarmi a dormire, e lei prende un saccone di cartoggi e si sdraia per terra, vicino alla porta.
Il lumino guizzava ombre fantastiche contro le pareti dell’isba. Anche quando dormivo nel letto di mia madre il lumino ad olio ardeva sul comodino davanti a un luccicante presepio di cartone e nella stufa di cotto sentivo schioppettare la legna d’abete. Le pareti della camera brillavano come fossero state ricoperte di diamanti e di fili d’argento, ed era invece per la galaverna; e fuori sulla strada che scendeva alla piazza sentivo le compagnie che cantavano il Natale. Poi le ombre del lume e il rumore del fuoco mi facevano paura e con la testa andavo sotto le coperte, e chiudevo gli occhi.
Un uomo con un lungo cappotto è in piedi accanto al mio giaciglio, vedo gli stivali di feltro e la canna di un mitra rivolta verso il pavimento. Parla sottovoce con la vecchia che sta affaccendandosi intorno al forno. Alzando la testa incontro i suoi occhi che brillano nella penombra. Ci guardiamo in silenzio e lui, dopo, con la mano libera che non impugna il parabellum, mi fa cenno di stare disteso; ma non è una imposizione, è un gesto ospitale, d’amicizia.Va a sedersi su uno sgabello vicino al forno e la vecchia, parlando sempre sottovoce, ogni tanto guardando dalla mia parte come dicesse di me, gli porge sul piatto di ferro smaltato patate lessate e focaccine con latte cagliato. L’uomo vorrebbe far mangiare anche la vecchia, ma lei dice “Niet, niet” con dolcezza.
Parlano a lungo, e per me è una sorpresa perché scopro come fosse la prima volta che si può ancora parlare, parlare e non gridare. Dire parole e non ordini, imprecazioni, bestemmie, monosillabi. Quando l’uomo si alza in piedi e si rimette in testa il berrettone di pelo e riprende in mano il parabellum, la donna lo segna con la croce alla maniera russa, e lui scopre i denti bianchi in un sorriso indulgente. Verso di me fa un cenno di saluto e di speranza, dà uno sguardo di controllo al parabellum e si avvia. La vecchia lo accompagna sin fuori dalla porta.
“E’ mio figlio” dice quando rientra. “Dormi, dormi”.
Dopo avermi svegliato mi fascia il piede, mi fa bere un infuso di erbe aromatiche, mi dà tre patate bollite. E sempre mi parla come fossi un bambino.
Mi rimetto le scarpe e mi avvolgo nella coperta calda e asciutta. Mi metto il fucile a tracolla per tenere aderente la coperta, e la vecchia mi segna con la croce. Mi accompagna alla porta e apre. E’ notte, ma non nevica più, ora. Le stelle brillano tutte nuove e innumerevoli: guardo l’Orsa, le Pleiadi, Orione. Delineo l’orientamento verso casa. La vecchia mi vuole accompagnare fino a una pista segnata da pali con un ciuffo di paglia legato su ognuno. La traccia si perde dove la Via Lattea si congiunge con l’orizzonte, e ogni cristallo di neve è come una piccola stella.
“I tuoi compagni” mi dice “sono passati di qui ieri sera. Se cammini li ritroverai presto. Vai. Vai. E quando arriverai a casa tua ricordati della vecchia Magda